La storia narra dell’indagine condotta da un tale Quinn, figliastro di un giudice ucciso da due loschi individui, non si comprende bene perché. Quinn è un giornalista. Un giornalista di un giornale scandalistico che, grazie a tale sua professione, riesce ad ottenere informazioni più rapidamente della polizia. La polizia, del resto, è palesemente su una falsa pista ed all’impavido Quinn non resta che indagare da solo.
Questo è tutto. Veramente tutto. Il resto è noia, come direbbe Califano. Noia, noia, noia, Mortale, aggiungerei. Nessun colpo di scena. Nessuno scossone. Il presunto ideatore di tutto l’intrigo viene spudoratamente evidenziato sin dalle prime pagine. Precisamente già a pagina 69, l’autore punta l’indice contro questo personaggio. Ma come se non bastasse, e poiché il buon Ferrigno non deve avere una gran stima dei suoi pochi lettori, a totale scanso di equivoci sull’identità del reale mandante degli omicidi, già perché dopo il giudice altre morti si susseguono, Quinn mette in campo un sesto senso degno di Nostradamus, affermando a più riprese – senza il benché minimo straccio di prova – che Fontayne (nel frattempo si scopre che questo è il nome del personaggio) è certamente coinvolto nel mistero. Da sbadigli. Non me ne vogliano i lettori se ho svelato, forse, qualcosa in più della trama del libro – in controtendenza a quella che è l’indole delle recensioni presenti su queste pagine – ma, mi si creda, nulla di più ho detto di ciò che il lettore possa apprendere da solo, sin dalle prime pagine, se ha l’apprezzabile coraggio di accingersi alla lettura della fatica di Ferrigno.
Gli altri personaggi sono tutti stereotipi tipizzati della più tipica letteratura americana di settore. C’è Jen la giovane fotografa tutta carriera e sensualità che ha una storia con Quinn che però è legato ancora alla precedente famiglia e soprattutto alla figlioletta. Ci sono Hugo e Rick i due killer. L’uno freddo e pare senza sentimenti, l’altro esaltato e tremendamente folle con una passione inusitata per l’aspetto esteriore. L’uno il contrario dell’altro, due contrari che insieme anziché amplificarsi si annullano in un festival di sbadigli e prevedibilità. C’è Joe, ex ballerino, ex carcerato, piacione ma invalido. Costretto su una sedia a rotelle. Dapprima sembra che tutto vada contro di lui. Persino Quinn che per quest’uomo – amico di infanzia del patrigno – nutre una venerazione particolare al punto di desideralro come padre vero, lo sospetta delle strane morti. Ma è solo per poco. Pochissimo. Nemmeno il tempo di metabolizzare l’idea malsana. Che poi arriva Fontayne, avvocato di successo che dietro un comportamento irreprensibile in società nasconde chissà quali turpi segreti e colpe. Già quali? Viene da chiedersi quali, infatti, dopo circa 278 pagine di noia mortale, ci si aspetta che tutto si chiarifichi. Che ogni tassello vada al suo posto. E invece nulla. Arriva la fine. L’epilogo, raffazzonato in fretta ed in furia da un autore palesemente a corto di idee e di tempo. Un epilogo che nulla svela. Solo un timido accenno alla possibile causa scatenante dei delitti e della vendetta (già perché pare che di vendetta si tratti): la gelosia. La gelosia di un marito nei confronti della propria moglie, colpevole solo, forse, di aver ben ballato con un uomo che sapeva danzare. Non ballare in senso figurato, o per dire altro, per alludere ad altro, ma ballato. Ballare sul vero senso della parola! E qui si apre un’altra piaga del libro. Il titolo. Dopo averlo letto, se ne avrete la voglia, vi chiederete ma cosa c’azzecca il ballo? Io me lo sono chiesto. E mi ero risposto dando la colpa alla traduzione, all’editing italiano. Vero. Ma sino ad un certo punto. Ed infatti, il titolo americano del libro è “Dead Man’s Dance”, più o meno
Tuttavia, se così fosse, non si spiegherebbe le righe di presentazione che
Tornado al racconto, i dialoghi sono pesanti. Includenti. Prevedibili, che è il difetto peggiore che possa avere un romanzo. I personaggi si è già detto sono statici. Ciascuno nel suo limbo e con la sua etichetta appiccicata addosso. Nessuno spessore psicologico. Nessuna “formidabile caratterizzazione” degli stessi, in barba a quanto – ancora una volta dichiarato nell’ultima di copertina dalla Mondadori.
A questo punto una riflessione è d’obbligo. Che motivo c’era di investire risorse economiche, non indifferenti, nella importazione e pubblicazioni di un simile lavoro che nulla aggiunge al già inflazionato panorama della letteratura polisco/thrille d’oltreoceano. Anzi simili esperienze risciano di far allontanare del tutto il lettore da simili contesti. Non sarebbe stato certamente più opportuno e proficuo, investire parte di quelle risorse nella scoperta di qualche talento nostrano? Chissà quanti giovani scrittori, abili e talentuosi, sognano la copertina del loro primo lavoro, ma devono vedere il loro sogno fermarsi innanzi alla tendenza degli editori a preferire produzioni straniere, che a loro dire, sono garanzie di migliore vendite.
In definitiva si sconsiglia vivamente la lettura di questo romanzo. Non emoziona. Non convince. Annoia. In una parola bocciato. Senza appello.
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Valutazione: 1 libro
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Scheda Libro | |
Titolo | Ballo Finito |
Autore | Robert Ferrigno |
Anno pubbl. | 1995 |
Editore | Mondadori |
Collana | I Blues |
Numero | -- |
Anno | 1995 |
Rilegatura | Brossura |
Formato | 13,2 x 21,5 |
Pagine | 278 |
Traduttore | Maria Teresa Marenco |
Prezzo | €. 6,20 (ad aprile 2008) |
Reperibilità | Solo Remainders |
ISBN | 8804406194 |